Il dietrofront dei club inglesi nella SuperLega ha decretato il fallimento del progetto in meno di 48 ore. Non lo sapeva ancora Andrea Agnelli ieri pomeriggio, quando ha concesso una lunga intervista a ‘Repubblica’ e il ‘Corriere dello sport‘ per dire la sua:
“Prima di rispondere alle domande, partendo da quello che è stato detto e scritto, ritengo che alcuni punti fermi debbano essere chiariti». Una sorta di sfogo che merita di essere letto poiché riassume gli elementi di ciò che avrebbe dovuto essere e non sarà. «Uno: nessuna minaccia ai campionati domestici. Anzi, la ferma volontà da parte del gruppo delle dodici società di continuare a partecipare alle competizioni nazionali, sia al campionato, sia alle coppe. Quindi totale adesione a quella che è la tradizione. Due: fin dalla costituzione della SLCo, la Superlega, si è incoraggiato il dialogo con le istituzioni, nel nostro caso Fifa e Uefa. Tre: que llo che stiamo facendo è perfettamente legale, stiamo esercitando una libertà prevista dal trattato dell’Unione europea, e questo aspetto lo considero particolarmente importante. Quattro: il calcio sta vivendo una crisi enorme di appeal che investe le nuove generazioni. Hanno inciso gli stadi chiusi da un anno. Per chi ha figli di dieci, quindici, vent’anni la disaffezione è più che palpabile: i giovani si interessano ad altre cose. Evidentemente – e qui entriamo in una sfera macroeconomica – questo triste fenomeno ha subìto un’accelerazione a causa della pandemia. Quinto, è forse il punto-chiave, quella che stiamo cercando di organizzare è la competizione più bella al mondo”.
Al cuore delle obiezioni mosse, c’è un concetto molto chiaro: il vostro un progetto elitario che snatura il calcio, trasformandolo da sport popolare in club dei ricchi. Cosa risponde? “Che non è assolutamente così. La nostra volontà è creare una competizione che possa portare benefici all’intera piramide del calcio, aumentando sostanzialmente quella che è la solidarietà distribuita agli altri club. Una competizione, lo sottolineo, che rimane aperta e prevede cinque posti a disposizione degli altri club”.
Per merito sportivo o su invito? “Questo fa parte del dialogo che abbiamo richiesto alle istituzioni. il maggiore problema dell’industria del calcio è la stabilità. Le riforme delle manifestazioni nazionali e internazionali sono temi che ho sentito rilanciare nel corso di ogni campagna elettorale di ogni presidente federale e di enti regolatori internazionali. Una volta arrivati a occupare posti di responsabilità, gli stessi pensano però al mantenimento delle posizioni di privilegio e di monopolio. La crisi non è soltanto finanziaria, ma di fidelizzazione. I più giovani vogliono i grandi eventi e non sono legati a elementi di campanilismo. La mia generazione lo era molto di più. Alcuni dati: un terzo dei tifosi mondiali segue almeno due club e spesso questi due presenti tra i fondatori della Superlega. Il dieci per cento è affascinato dai grandi giocatori, non dai club. Due terzi seguono il calcio per quella che oggi viene chiamata ‘fomo’, fear of missing out, paura di essere tagliati fuori. E adesso la percentuale più allarmante: il 40 per cento dei ragazzi tra i 15 e i 24 anni non prova alcun interesse per il calcio. Serve una competizione in grado di contrastare quello che loro riproducono sulle piattaforme digitali, trasformando il virtuale in reale. Attraverso Fifa crei la tua competizione, quella competizione va riportata nel mondo reale. Tralasciamo gli effetti della concorrenza dei vari Fortnite, Call of duty eccetera, autentici catalizzatori dell’attenzione dei ragazzi di oggi destinati a essere gli spender di domani”.
Lei cosa teme? “Io temo molto il populismo, la demagogia e che qualcuno non prenda atto dello stato di monopolio nel quale ci muoviamo. Minacce, questa la risposta che abbiamo ottenuto. Impedire a un lavoratore di svolgere il proprio lavoro è gravissimo. Ad ogni modo, non siamo assolutamente preoccupati. Il nostro è un approccio a una nuova libertà. Nuova libertà che è garantita dai trattati dell’Unione europea. Vogliamo uscire da questa situazione di monopolio nella quale i nostri regolatori sono anche i principali competitor”.
Urbano Cairo l’ha definita un traditore, il suo ex amico Ceferin addirittura un serpente. La accusano di averli traditi. Cosa risponde? “Io ho lavorato per quasi dieci anni nelle istituzioni sportive internazionali. Bene, queste detengono il controllo delle manifestazioni, un monopolio di fatto, senza peraltro affrontare alcun rischio economico. Il rischio economico ricade esclusivamente sui club. Io non sono riuscito a far capire a quelle istituzioni l’enormità del rischio imprenditoriale per i club che generano valore per tutti gli stakeholder del calcio. O forse non avevano interesse a capirlo. Era necessario cambiare le cose”.
Le uscite di Boris Johnson e Macron sono state molto dure e naturalmente contrarie al vostro progetto. Mario Draghi ha invitato invece a una sorta di mediazione. “Secondo me la posizione di Draghi è di estremo buonsenso. Il mondo dello sport chiede da sempre a quello della politica di evitare ogni forma di ingerenza. Il primo a pretenderlo è Bach, il presidente del Cio. Nel caso specifico, se i politici volessero dare una mano, ricordo loro che stimiamo perdite dai 6,5 agli 8,5 miliardi e la necessità di liquidità dell’intero sistema è pari a 6 miliardi. Se si tenesse conto del contributo del mondo del calcio in termini fiscali e degli effetti in tal senso che una manifestazione come la Superlega può generare senza portare alcun nocumento, sono sicuro che qualche politico proverebbe ad aiutare la Uefa a capire perché si è giunti a questo punto”.
Presidente, era pronto ad affrontare un rimbalzo così negativo in termini di immagine personale? E quando sabato scorso Ceferin ha provato invano a telefonarle s’era improvvisamente scaricata la batteria del suo cellulare? “Avevo messo in conto che ci sarebbe stata una reazione di questo tipo. Per quanto riguarda i dettagli e le dinamiche di vita personale preferirei non commentare perché si commentano da soli. La volontà politica di un cambiamento nella direzione della lega dei più forti si manifesta da venti, trent’anni. Non abbiamo inventato l’acqua calda. Quello che non si è compreso è il terribile impatto della pandemia sul mondo del calcio. La massima istituzione del calcio europeo a dicembre del 2020 pensava che la pandemia non avrebbe fatto danni, se non ci crede vada a rileggersi il verbale. Ribadisco che la Uefa non corre alcun rischio nell’attività che regolamenta, ne trae solo benefici. Loro gestiscono i nostri diritti, li vendono, decidono quanti ridistribuirne, e ci regolano. La riforma del 2019 era una proposta Uefa, appena hanno sentito un minimo di rumore sono scappati. Parlano di distribuzione e ridistribuzione dei ricavi che noi generiamo e questo può essere fatto in modo molto migliore. Senza andare a individuare joint venture con Alibaba sulla pelle di United, Real Marid, Juventus eccetera. O sono regolatori o sono promotori commerciali. Scelgano cosa vogliono essere. Tutti noi nasciamo come un gioco e abbiamo statuti e regole del gioco, ma non possiamo più lanciare il dado e vedere che numero esce, oggi siamo un’industria da 25 miliardi. Nel mondo dell’automobilismo o sei Fia o sei Fom”.